Da Tramontana alle Molacce lungo la valle della Fiumaretta

Prima delle nove scendiamo alla fermata di Tramontana, 336 m s.l.m. In oltre quaranta siamo baciati da uno splendido sole che ci accompagnerà per tutta la giornata. Molti di noi hanno viaggiato senza biglietto. La compagnia COTRAL, interpellata dal Presidente della Castellina nei giorni scorsi, ha confermato di essere a conoscenza della carenza di biglietti a Civitavecchia. Sembra che sia una cosa normale. A noi risulta strano che una compagnia di trasporto rinunci agli incassi per non essere capace di rifornire le rivendite di titoli di viaggio.
Dopo il briefing iniziale torniamo indietro lungo la Braccianese-Claudia per poi varcare un cancello sulla nostra destra. Oggi attraverseremo diversi terreni privati, con il consenso preventivo dei proprietari.
Scendendo verso il mare, Claudia ci porta alla scoperta dei resti del campanile della Chiesa di Sant’Egidio del VI sec. d. C. La chiesa risulta menzionata in documento del tempo di San Gregorio Magno come situata alle spalle della Ficoncella e ricadente nel territorio di Aquae Tauri.
Più avanti ci troviamo davanti all’ingresso posteriore delle Terme di Traiano. Ci aspettano. Paghiamo due euro a testa ed entriamo nel complesso termale per trovarci in mezzo all’addestramento della seconda legio Traiana Fortis.

Sei legionari assumono la formazione di difesa quando il centurione lancia il grido “Tellum”: è in arrivo un pioggia di pigne in vece di proiettili avversari. I tre davanti piantano lo scudo a terra verticalmente, mentre i tre dietro lo mettono obliquo, con la parte inclinata appoggiata sullo scutum del compagno davanti. Passato l’attacco i legionari tornano in posizione di riposo al comando “Locum resumite”.
Il centurione Titus Constantius Hostilius, conosciuto anche come Maurizio Politi, ci spiega che l’unità minima dell’esercito romano, il contuberium, era composta da 8 soldati che condividevano un mulo, una macina, la tenda e i pasti. Il centurione, a proposito della posizione di difesa, che abbiamo appena visto all’opera, ci dice che può essere assunta anche da due soli legionari. La formazione completa, chiamata dal comando “Testudinem facite”, invece può essere realizzata da non meno di 16 soldati e prevede la copertura completa di tutti i lati. Tutti i legionari sono armati con un pilum e un gladius, sono protetti da uno scutum e indossano una lorica segmentata, ovvero un’armatura per la parte superiore del corpo, composta di tante fasce metalliche unite da cardini. Quest’armatura è caratterizzata, oltre che dall’eccezionale robustezza, dalla capacità di scaricare dinamicamente l’energia dei colpi ricevuti. Questa caratteristica invece era assente nelle armature successive del periodo medievale, che essendo statiche, non risparmiavano, a chi le indossava, i traumi dovuti alla potenza dei colpi ricevuti. Tornando ai nostri legionari, uno indossa una lorica hamata, cioè una cotta di maglia, perché in realtà non tutti i soldati avevano lo stesso equipaggiamento. Il centuriore ci illustra le caratteristiche del pilum, un giavellotto da lancio composto per circa un terzo da una parte metallica, che termina a punta, fissata su un’asta di legno. Il pilum una volta piantato era impossibile da estrarre a causa del piegamento della parte metallica realizzata in ferro dolce. Ciò evitava il riutilizzo dell’arma da parte del nemico e ne rendeva inservibile lo scudo che quasi sempre veniva perforato dalla potenza dell’arma. A quei tempi un soldato senza scudo era spacciato. Lanciato il pilum, il legionario metteva mano al gladius, una corta spada particolarmente adatta al combattimento ravvicinato. I colpi venivano portati di stocco, cioè di punta, non di taglio, e diretti al collo avversario, da sopra lo scudo, oppure alle gambe o ai visceri, se portato da sotto lo scudo. Data la medicina del tempo, una ferita profonda tre o quattro centimetri risultava essere spesso mortale a causa delle infezioni.
Lo scutum, del peso di 9 chili, era fatto di tre strati di legno incrociati, i bordi erano rinforzati in bronzo, così come l’umbone posizionato esternamente a protezione dell’impugnatura. Era impiegato non solo per la difesa ma anche per l’offesa. Ogni legione era contraddistinta da una decorazione e colori diversi. In posizione di difesa lo scudo era sostenuto dal gomito, dal ginocchio e dalla punta del gladio.
Il centurione infine ci illustra il progetto dell’associazione Imago Urbis, che è quello di rievocare scene di vita militare e scene di vita civile del tempo nonché di partecipare, magari a Civitavecchia, agli incontri storici internazionali con altri legionari e con i barbari. Chi fosse interessato può contattare l’associazione all’indirizzo email varrus@tele2.it.
Per finire ci viene presentato Giuseppe Scoglio che è il regista delle scene.

Archiviata la parte militare ascoltiamo da Claudia la storia delle terme impropriamente dette di Traiano. Esse infatti vennero edificate ai tempi di Silla, tra il 90 e il 70 a. C., successivamente ristrutturate da Traiano e ampliate poi da Adriano che introdusse la separazione degli ambienti maschili da quelli femminili. Dal punto di vista architettonico sono nettamente riconoscibili la parte repubblicana e la parte imperiale. Le terme sono dette anche Taurine dalla leggenda secondo cui un toro, prima di una lotta, provocò la fuoriuscita dell’acqua termale raspando il terreno con gli zoccoli. Claudia riferisce anche che il nome potrebbe aderivare da quello di Tito Statilio Tauro, due volte console e generale di epoca augustea.

Usciti dalle terme dalla parte posteriore, la stessa da cui siamo entrati, andiamo a incrociare la strada che conduce all’Aquafelix. Sull’altro lato, poco più in basso, un intrico di alberi, rovi e vegetazione varia, nasconde una fornace di calcare alta dieci metri. Mauro ci spiega che ormai è impermeabile alla vista, tanta è la vegetazione che l’ha inghiottita. Il buon Tisselli ci racconta anche che, nel punto in cui siamo, transitava un’ampia strada doganale, usata anche per la transumanza, che congiungeva Civitavecchia a Viterbo, dopo un percorso di 64 chilometri, includendo anche la strada dell’Omo Morto, sotto alla frazione di La Bianca, oggetto di un’escursione di due anni fa.

Saliamo sul colle della Ficoncella sfregiato da scarichi di calcinacci, materassi e mobili usati. Oltrepassiamo la distesa di camper dei romani che vengono oggi, come ai tempi antichi, a godere delle nostre acque termali e sostiamo per ammirare il panorama di fronte a noi. Il monte Argentario sembra lì a un passo, così come il Giglio e Giannutri. La giornata è eccezionalmente chiara e la vista spazia senza ostacoli verso l’infinito e oltre (questa è una citazione da Toy Story). Il parcheggio dei camper è proprio laddove sorgeva, dall’età repubblicana, la municipalità di Aquae Tauri.
Scolliniamo e scendiamo lungo il versante che guarda l’Argentario. Qui ci sono i resti di due fornaci ubicate in prossimità di una cava di calcare.

Claudia ci spiega che l’area era già abitata in precedenza dagli etruschi che già utilizzavano le acque termali. La presenza dell’abitato etrusco, che ancora non è stato trovato, è testimoniato dalla necropoli del Pisciarello che purtroppo è andata distrutta a causa degli esplosivi usati per estrarre il calcare. Rimangono soltanto alcuni disegni delle tombe fatti dal Bastianelli. A pochi passi da noi rintracciamo i resti di un antico basolato etrusco che apparteneva alla via che congiungeva Caere con Tarquinia, passando per la Castellina del Marangone. All’epoca i tre insediamenti contavano rispettivamente 25.000, 20.000 e 2.000 abitanti e il confine tra le due potenti città che dominavano l’Etruria era il Marangone.

Mauro ci spiega il ciclo di lavorazione del calcare. I blocchi di pietra venivano calati dall’alto nella fornace e depositati su una grata metallica. Durante la fase di cottura che durava circa 5-7 giorni il carbonato di calcio e il carbonato di magnesio si liberavano dell’anidride carbonica trasformandosi in ossido di calcio e ossido di magnesio, cioè in calce viva. La pietra, ridotta di un terzo in peso a causa della cottura, veniva prelevata, sempre dall’alto, e posta in cassoni pieni d’acqua per lo spegnimento della calce viva, che durava circa una settimana. Realizzata la trasformazione da ossido a idrossido, il grassello risultante, una pasta densa, veniva messo a stagionare per un anno e più. Una delle due fornaci, secondo Tisselli, è risalente al periodo della fabbrica del Forte Michelangelo.

Continuiamo a scendere e passiamo sotto l’autostrada. Ci fermiamo a pranzare sotto le arcate del suggestivo acquedotto che portava l’acqua dai monti di Allumiere al porto di Traiano. L’acqua dei 5 bottini veniva raccolta nella botte della Sibilla e da qui canalizzata, tramite un cunicolo di 2,05 m x 0,60, nella botte delle Tagliacce dove confluiva anche l’acqua proveniente dalla sorgente della Trinità raccolta in precedenza nella botte delle 40 cannelle. Dalla botte delle Tagliacce l’acqua raggiungeva Centumcellae, con un percorso di 35 km e l’1% di pendenza, all’interno di un cunicolo di 1,40 m x 0,60, con il fondo fatto di coccio pesto, in gran parte sotterraneo. Gli avvallamenti furono superati con 73 ponti. Quello del Pisciarello, il luogo in cui siamo, consta di 17 arcate per 200 metri di lunghezza. L’acquedotto, costruito nel II sec. d. C. aveva una portata originaria di 70 once, ovvero 15 l/s. Nel 1953, quando era ancora in funzione, fu misurata una portata di 7 l/s. In epoca romana gli acquedotti erano protetti da una fascia di rispetto all’interno della quale era vietato costruire. Tutte queste informazioni ci vengono trasmesse dal sapiente Alberto.

A malincuore lasciamo questo luogo splendido e scendiamo lungo la valle della Fiumaretta. Sbuchiamo in via delle Molacce così denominata per le tre mole civiche in cascata costruite nel 1748 da Carlo Marchionni, architetto, scultore e caricaturista. Purtroppo le mole, probabilmente per la scarsa manutenzione, smisero di produrre già all’inizio del’800. La macinatura è sempre stata un problema a Civitavecchia, a causa della scarsità della portata dei corsi d’acqua.

Ci buttiamo per campi per raggiungere via dell’Immacolata, prima del canile municipale e da qui torniamo alle auto che avevamo parcheggiato questa mattina di lato al tribunale.
Il Garmin di Orazio sentenzia che abbiamo percorso 13 chilometri. Mauro Tisselli sostiene che ne avremo fatti al massimo 6 o 7. Non so chi abbia ragione, ma, chilometri percepiti o reali, le mie gambe danno ragione al Garmin.

Seguiranno le foto.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi